Amiche ed Amici carissimi, in questo pomeriggio prenatalizio, mi proteggo dalla folla impegnata nella rincorsa all’ultimo regalo e, in compagnia dell’inseparabile Kimi oltreché di una calda tazza di the, mi immergo alla rilettura di alcuni capitoli de “La strage delle innocenti” – il saggio che ogni donna, dall’adolescenza alla senescenza merita di trovare sotto l’albero – ed ecco che mi sovviene il desiderio di estrapolare alcuni paragrafi atti ad esternare un confronto tra due criteri genitoriali per me entrambi forieri di lacrime liberatorie. Due padri, anzi un papà e un padre che si rivolgono alle loro figlie…Gian Ettore e Marcello, mio padre:
Gian Ettore:
“Ci sono momenti in cui bisogna accettare la fine di un amore, che non ha futuro, che non è ricambiato, che inizia a fare molto male, che uccide la nostra dignità. Deve arrivare il momento in cui le vittime devono provare amore per sé stesse e trovare il coraggio di dire basta, anche sapendo che il loro cuore sanguinerà per molto tempo. Bisogna imparare ad amarsi per liberarsi dalle catene della violenza.
Ne sono convinto anche come padre di una figlia. Ogni giorno cerco in tutti i modi di parlarle, di dirle che non dovrà mai sopportare qualsivoglia violenza dal suo uomo e che alle prime avvisaglie e mancanza di rispetto da parte di lui, lei dovrà cambiare strada e lasciarlo. Un amore sbagliato distrugge un’esistenza. Le ricordo che nessuno uomo violento cambierà potrà solo fingere per qualche tempo, per poi togliersi all’improvviso la maschera e commettere altre violenze. Perché ‘uomo violento è un malato incurabile e lei non dovrà e non potrà fare niente per salvarlo da se stesso.
Ricorda figlia mia che il tuo principe azzurro sarà il tuo lavoro e che per questo motivo non dovrai dipendere da nessuno. Se arriverà l’amore vero, sarà per te una grande fortuna, te lo auguro con tutto il cuore di papà. Altrimenti, impara a bastarti senza immolarti a un uomo che uomo non è”.
Marcello:
Mio Padre non c’è più, ci ha lasciati in una calda notte di luglio 2019, dopo oltre due anni di sofferenza. Quando accettai di scrivere la mia storia, quale contributo finalizzato alla diffusione di un libro foriero di preziose informazioni atte alla tutela delle donne, non nascondo che ebbi non pochi ripensamenti: i miei genitori non ci sono più – mi sono più volte chiesta se non meritassero il pietoso velo del silenzio – e la mia esperienza di vita in seno alla mia famiglia d’origine, seppure non felice, è imparagonabile alle tragedie che molte ragazze e donne vivono o hanno vissuto. Tuttavia, mi sono detta “Daniela, tu scrivi la verità o almeno quella che è la tua onesta percezione di tale realtà, esternando i tuoi disagi, le tue sensazioni e la sofferenza che esprimi era Loro ben nota, ma sicuramente non così importante dall’indurli ad un’inversione di tendenza, auspicabile quantomeno nei comportamenti, dunque perché dovresti accusare remore o un possibile senso di colpa?” E così, rievocando, rievocando… ho portato a termine un capitolo che credo e spero possa essere induttivo di riflessione per i lettori, e che mai avrei immaginato potesse agire su di me alla stregua di un “balsamo lenitivo”.
Leggendo papà Gian Ettore, emerge l’amorevole sostegno morale alla giovane figlia, e la contrapposizione con il mio vissuto ne esalta la mia dolorosa mancanza. Qualcuno può obiettare che “erano altri tempi”, ma sostegno e amore si manifestano nella loro essenza, prescindendo da una dialettica più o meno moderna. Di seguito, alcuni punti salienti, dei dialoghi con mio padre inerenti l’aspetto lavorativo.
“Tuo marito accetta di lavorare interi mesi negli Stati Uniti per seguire un suo progetto” e criticando proseguiva chiosando “tu, per ambizione personale, viaggi come una trottola in giro per l’Italia e torni a casa quando non si sa, stressata da un ruolo che vuoi mantenere a tutti i costi, ma lui non dice niente”.
Un padre maschilista, esprimenti sprezzanti giudizi intrisi di preconcetti, manifestati con immancabili frecciate, in sostituzione dell’auspicabile succitato sostegno. Era fin troppo chiaro quanto aspettasse il mio “crollo” per intervenire interpretando il suo ambìto ruolo di padre salvatore della figlia ribelle e del genero troppo condiscendente.
Il giorno del mio “riscatto” giunse quando annunciai in famiglia l’acquisizione della mia azienda.
Mio marito fu come sempre partecipe alla mia soddisfazione, mio suocero si congratulò con me, ma mio padre non perse l’occasione per toccare il fondo: “una bella donna fa carriera dalla fronte in giù”, asserì con la sufficienza che gli era propria.
Naturalmente, per amore di comparazione tra due criteri educativi, ho rievocato solo gli aspetti veritieri ma peggiori di mio padre, tuttavia desidero che la mia esperienza funga da esortazione al sostegno genitoriale e all’intraprendenza figliale.
Con un abbraccio, auguro a tutti le più gioiose feste
Daniela Cavallini